Marta non m’ama ed io non l’amo

Marta non m’ama ed io non l’amo. Pure
cosa rimane nella nostra vita
da quando disse – Tra di noi è finita –
è un’apocalisse con figure
michelangiolesche, botticelliane.

Le primavere botticelliane –
che sembra lei quella chiamata Flora –
potessi almeno rivederla ancora
al plenilunio, tra le ipecacuane.
Ma se la rivedessi, che direi?

Ma se la rivedessi, che direi?
È una domanda che mi faccio indarno
mentre attraverso i ponti sopra l’Arno
pieni di sampietrini e di cammei
d’onice incisa come Dio comanda.

Resto indecisa – come Dio comanda –
tra vivere e morire o continuare
a leggere e ripetere e amare
le mie abitudini di laureanda
in Letteratura contemporanea.

Ma Marta non mi è più contemporanea –
ormai declina a un lontano passato
la rondine il futuro trapassato –
curiosa ancora ma già estranea
come galassia in allontanamento.

Di quel tuo passo in allontanamento
non mi dimentico le calzature
Vans, e che va di moda la texture
sulle Dottor Martins – e non commento
il tuo seguire la moda e la morte.

Marta che muore della nostra morte
come una martire preraffaellita
e che mi disse – Tra di noi è finita –
usandomi una voce aspra e forte
quasi fosse una voce buona e giusta.

È veramente cosa buona e giusta
a queste vie simmetriche e deserte
rimettere le rime che ci ha inferte
la nostra ingiusta vita incombusta.
Pur Iulio suona ancora di lontano…

Marta non m’ama ed io non pure l’amo.

(Giulia Martini)

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Chi anche solo in una certa misura è giunto alla libertà della ragione…

Chi anche solo in una certa misura è giunto alla libertà della ragione, non può non sentirsi sulla terra niente altro che un viandante, per quanto non un viaggiatore diretto a una meta finale: perché questa non esiste. Ben vorrà invece guardare e tenere gli occhi ben aperti, per rendersi conto di come veramente procedano le cose nel mondo; perciò non potrà legare il suo cuore troppo saldamente ad alcuna cosa particolare: deve esserci in lui stesso qualcosa di errante, che trovi la sua gioia nel mutamento e nella transitorietà.

(Friedrich Nietzsche)

da “Le fantasticherie del passeggiatore solitario” di Jean-Jacques Rousseau

Dopo cena, quando la serata era bella, andavamo ancora tutti insieme a passeggiare sulla terrazza per respirare l’aria del lago e la frescura. Ci si riposava nel padiglione, si rideva, si chiacchierava, si cantava qualche vecchia canzone certo non meno bella delle complicate arie moderne e alla fine si andava a dormire ciascuno contento della propria giornata e non desiderando altro se non che il giorno successivo fosse simile a quello appena trascorso.