quando voglio piangere vado in biblioteca…

quando voglio piangere

vado in biblioteca.

.

la felicità ha bisogno dei suoi sfoghi,

dei suoi tempi,

così anche lacrimare

fa parte del piano,

con cui fare i conti,

qualche volta.

.

singhiozzo,

di nascosto,

al reparto 815 di poesia,

smoccolo sui versi di Govoni

o di chi mi capita,

mentre sbircio l’ultima pagina,

per vedere a quando risale

il precedente prestito.

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dal “De otio” di Seneca

Essi [Cleante, Crisippo, Zenone] nondimeno non trascorsero pigramente la loro vita: trovarono il modo di rendere la loro tranquillità più utile agli uomini di quanto non fosse tutto l’affannarsi e il sudare degli altri. E, quindi, essi sono apparsi impegnati in molte cose anche se non parteciparono mai alla vita pubblica.

da “Pedagogia del bosco” di Selima Negro

[…] L’assunto principale che sta dietro al principio dell’immersione nel selvatico quindi non è la necessità di una riconnessione con un mondo perduto, o di uno sforzo di adattamento a una realtà estranea per crescere e migliorare, ma l’affermazione della necessità di crescere consapevoli della nostra appartenenza a questo mondo e a nessun altro, insieme con le altre forme di vita, anzi proprio grazie alle connessioni che ci legano ad esse.

L’immersione nel selvatico permette alcune esperienze uniche, come trovare il cadavere di un piccolo animale morto, come un merlo, un topino, una talpa o una rana, nel suo contesto. Grazie a questa scoperta si accendono nei bambini una serie di domande fondamentali: “Cosa è successo?”, “Chi l’ha ucciso?”, “Cosa gli succede ora?”, “Perché è qui?”. Ogni bambino o bambina troverà un aspetto cruciale per lui/lei da indagare: il cambiamento, l’assenza, l’imprevisto. […]

da “Il sole a picco” di Vincenzo Cardarelli

Abbiate pietà dell’insonne. La sua disgrazia è di non poter dormire mentre tutti dormono e di aver bisogno, per prendere sonno, di essere cullato dal suono delle campane e dai lieti rumori del giorno che nasce. Vorrebbe che la vita non s’interrompesse mai e finisce per esserne così annoiato che una delle ragioni per cui torna, a periodi, a fare della notte giorno è appunto il desiderio di sottrarsi alla faticosa monotonia di quest’ultimo. Perde in tal modo tutto il suo tempo. E dorme, quando dorme, sopra un cumulo di cose lasciate a metà, imperfette, di questioni che rimarranno insolute in eterno.

Attenzione! Attenzione!

Quando a scuola l’insegnante ti richiama e ti dice di stare attento alla lezione, tu, che magari hai altro per la testa, cominci a corrugare la fronte e ti sforzi di stare concentrato, mettendoci tutto l’impegno. Ma questa fatica ti aiuta davvero a prestare attenzione? Per Simone Weil la vera attenzione non si ottiene con uno sforzo di volontà. È la gioia di imparare a far nascere in te il desiderio di stare attento, che allora per te diventa naturale come respirare, senza dover corrugare la fronte dalla fatica. Come si impara l’attenzione? Innanzitutto, non bisogna avere fretta, ma saper aspettare, con calma, come si fa con le cose più preziose.

Immagina di trovarti in un posto pieno di gente, con rumori e voci che si mischiano: ti serve un grosso sforzo per capire cosa sta succedendo intorno a te.

Ora immagina invece di essere in un luogo tranquillo e silenzioso. Metti da parte i tuoi pensieri e le cose che già sai, per far posto ai pensieri nuovi e alle cose nuove da imparare. Proverai la gioia di aver capito qualcosa in più, e senza sforzarti inutilmente.

Imparare a prestare attenzione non serve solo per la scuola, ma per la vita, perché aiuta a distinguere il bene dal male. Se si è distratti si rischia di abbracciare frettolosamente un’idea malvagia. Se invece si presta attenzione ecco che appare chiara la distinzione tra il bene e il male. Per Simone Weil l’attenzione ci evita di cadere distrattamente nel male, e perciò dieci minuti passati con lei valgono più di due ore con i muscoli contratti.

(da U. Galimberti, Perché?, Milano, Feltrinelli, 2019)