da “I nuovi eremiti. La ‘fuga mundi’ nell’Italia di oggi” di Isacco Turina

L’eremita non si ritira perché non è riuscito a conseguire una posizione nel mondo. Tra gli intervistati, abbiamo incontrato ex architetti, registi, insegnanti, postini, medici eccetera. Anche tra il personale ecclesiastico, quelli che poi diventeranno eremiti occupano a volte posti di responsabilità, specialmente nella formazione e nelle missioni. Oltre che riduttiva, l’ipotesi che qualcuno si faccia eremita perché ha fallito in altre carriere è dunque smentita dai dati raccolti. Un’altra ipotesi malevola e di senso comune, vuole che l’eremita sia un misantropo che in questo modo giustifica la sua disaffezione per gli altri. […] Gli eremiti sono spesso persone affabili, ospitali e comunicative, come attesta pure il loro curriculum precedente in cui spesso figurano mestieri che prevedono abilità relazionali e frequente contatto con altri. Infine, non è nemmeno possibile sostenere che l’eremita si ritiri per fare i propri comodi. In molti casi (anche se non in tutti) egli in effetti è libero dal controllo diretto e continuo di un superiore. Ma è anche vero che poi s’impone da solo orari di preghiera e pratiche ascetiche talvolta molto esigenti, più di quanto possa accadere in un monastero. Inoltre si deve considerare che quanto più egli guadagna in libertà, tanto più perde in sicurezza, poiché l’istituzione (in questo caso la diocesi) raramente gli garantisce assistenza, vitto, alloggio, salario. Quando poi si tratta di donne, questo appoggio non esiste praticamente mai, e la persona deve provvedere ai propri bisogni interamente da sola o con l’aiuto della propria rete di conoscenti. […]

Per quanto da lontano possa apparire affascinante, l’eremitismo è principalmente, tutti i giorni dell’anno, una vita che si compone soprattutto di solitudine, silenzio, veglie, letture spirituali e preghiera. Per durare si richiede una motivazione più forte che un semplice ripiego, così come per superare i vari anni di prove e difficoltà che sempre precedono l’inizio di una vita eremitica stabile a tempo pieno. […]

L’arte è sempre quella

L’arte di perdere s’impara presto;

tante le cose col segreto intento

di andare perse, che non è un disastro.

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Perdi una cosa al giorno. Con malestro

accetta chiavi perse, un’ora al vento.

L’arte di perdere s’impara presto.

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Perdi di più, più in fretta; al peggio apprestati:

luoghi e nomi e dov’è che avevi in mente

di recarti. Non sarà mai un disastro.

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L’orologio di mamma ho perso; e questa!

che è l’ultima di tre case nel niente.

L’arte di perdere s’impara presto.

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Ho perso due città, belle. E, più vasti,

altri regni, due fiumi, un continente.

Mi mancano, ma non è poi un disastro.

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Anche perdere te (la voce, il gesto

amato) non mi smentirà. È evidente:

l’arte di perdere fin troppo presto

s’impara, e sembra (scrivilo!) un disastro.

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(Elizabeth Bishop)