[…] La particolarità di Port-Royal è per me l’invenzione appassionante – anche se difficilmente concepibile per lo spirito – di una comunità di solitari.
La parola “solitario”, nel senso che prendeva per i Giansenisti, è in fondo tanto bella quanto enigmatica.
“Solitari” erano chiamati uomini della società civile, aristocratici o ricchi borghesi, che sceglievano i costumi del convento (le sue astinenze, i suoi silenzi, le austerità, le veglie, i compiti, le letture) ma rifiutavano di legarsi con i voti. Erano consiglieri di Stato, medici, avvocati, professori, ufficiali, gran signori. Lasciavano la corte per fare venti chilometri e ritrovarsi in un bosco. Potarono. Risanarono i piccoli acquitrini perennemente intrisi d’acqua che costeggiavano la riva e a poco a poco erodevano le fondazioni della cappella. Edificarono le loro casupole dall’altra parte del muro, ai bordi del monastero dove si erano ritirate donne che ammiravano, fanciulle la cui reclusione provocava il loro rimpianto, sorelle che amavano. Non rinunciarono all’uso della cortesia mondana. Utilizzavano la parola “signore” per parlare tra loro e perfino per rivolgersi ai fanciulli che istruivano. Dicevano “signore” ad ogni cosa, come San Francesco diceva “fratelli” agli uccelli e ai fili urticanti delle ortiche e alla nuvola che passa e al sole che si leva. Non si lasciavano guidare da alcuna regola esteriore, non obbedivano a nessuno, gelosi soltanto del loro ritiro dal mondo, grandi amministratori del loro selvaggio ritrarsi – grandi economi, grandi bonificatori di paludi, grandi giardinieri del silenzio. Studiavano. Non davano del tu a nessuno. Non davano del tu a Dio, né ai fanciulli né ai poveri né alle bestie. Salutavano le cornacchie, ne ammiravano i becchi duri e neri e accarezzavano i gatti. […]