Genealogie, impronte e voli

Era dell’Angola e negra la mia trisnonna, 

ho trovato l’altro giorno il suo nome dietro 

non a una poesia perduta in un cassetto, 

ma a un foglio stampato 

a luci e a cristalli d’argento

.

È stato suo figlio a scrivere 

il suo nome sulla fotografia, come gesto di memoria. 

Mi ricordo ancora di lui, vagamente, 

io molto piccola e lui quasi cieco, 

suonava il violoncello, questo mio bisnonno,

parlava piano e con un ritmo 

incerto e delicato

.

Sono scolorite entrambe dal tempo, 

la fotografia e la mia trisnonna: 

i suoi capelli bianchi ricci

(piccolissimi occhi di uccello tropicale),

una pelle molto liscia che le invidio, io 

che ne ho ereditato il nome, ma non la morbidezza 

né il colore della pelle 

.

Mia figlia avrebbe potuto rivelare 

pigmenti trasmessi 

da quella donna dolce, 

come diceva ancora mia nonna, 

ma gli occhi azzurri di mia figlia 

sono venuti da nuove impronte 

.

Il pigmento lanciato dal tempo 

di DNA comune 

è arrivato a mia figlia 

in uno strato invisibile: in un frutto

impercettibile, una eredità di voce: 

musica di kora più che violoncello 

in un ritmo europeo 

.

Non si estinguono di fatto i vulcani, 

prima devono accogliere, in commozione di luce, 

le nostre ristampe 

tinte dalla musica di eterni filamenti: 

uccelli per cui un giorno, copia mai uguale 

di tale gloriosa imperfezione 

il volo sarà loro ala –

.

(Ana Luísa Amaral)

Le vecchie di fuoriporta

Le vecchie di fuoriporta (a Irsina a Oppido

a Genzano) si svegliano come i gatti. Con

le manine si lavano, con le zampette si pettinano,

col musino rosso si specchiano, si raffreddano

d’inverno: come i gatti. Vivono

in sottani da trenta metri, col crocifisso

e la corona dai grossi grani, con un’icona

al muro: col letto a baldacchino

che vi troneggia sovrano: aprono la porta

la mattina, attendono che il giorno – un bimbo

d’oro! – tenda la mano.

(Michele Leone Barbella)

da “Trent’anni di editoria ‘inutile’” di Vanni Scheiwiller

[…] Ma anche l’editore è stanco e, spesso, sfiduciato: la mia stanchezza oggi ha più di trent’anni. 

Ancora oggi, nei momenti di scoramento, mi tengo aggrappato, disperatamente ma con rinnovata certezza, ad alcune pagine bellissime di un libretto a me particolarmente caro, curato dal compianto Franco Antonicelli: L’editore ideale di Piero Gobetti, da me pubblicato con tanto amore e venerazione il 16 febbraio 1966, quarantesimo anniversario della sua morte: «Ho in mente una mia figura ideale di editore. Mi ci consolo, la sera dei giorni più tumultuosi, 5, 6 per ogni settimana, dopo aver scritto 10 lettere e 20 cartoline, rivedute le terze bozze del libro del Tilgher o di Nitti, preparati gli annunci editoriali per il libraio, la circolare per il pubblico, le inserzioni per le riviste, litigato col proto che mi ha messo un errore nuovo dopo 3 correzioni, mandato via rassegnato dopo 40 minuti di discussione il tipografo che chiedeva un aumento di 10 lire per foglio, senza concederglielo; aiutato il facchino a scaricare le casse di libri arrivate troppo tardi quando ci sono solo più io ad aspettarlo, schiodata io stesso la prima cassa per vedere i primi esemplari e soffrire io solo del foglio che è sbiancato in una copia, e consolarmi che tutto il resto va bene, che né il legatore né il macchinista non han fatto nessuna gherminella alla […]; arrivato con 30 soli secondi di ritardo alla stazione dove tra un treno e l’altro devo combinare un contratto con un editore straniero, ricevute 20 telefonate, 10 facce nuove che vengono con le proposte più bislacche e bisogna sentire, per vedere l’idea che vi portano, scrutarle, scegliere il giovane da aiutare e il presuntuoso da mettere subito alla porta… […]»

Queste note scriveva nel 1925 Piero Gobetti, editore coraggioso e anticonformista: nove anni prima che io nascessi, più di mezzo secolo fa. Eppure quanto attuali e brucianti ma anche quanto consolanti nei momenti di incertezza. Sono incontri, sia pur attraverso la pagina, che ti danno la forza di non mollare e allora ecco i tuoi autori, spesso morti ma più vivi dei vivi, che ti vengono attorno e ti fanno coraggio più di qualsiasi aiuto o finanziamento, tattica aziendale, contratto pluriennale, organigramma, gestione, organizzazione, input, svalutazione, obsolescenza, marketing, budget, percentuale, diagramma, scorporo, terze economie, programmazione, c.i.f., f.o.b.… Tu resti, sì, da solo, sempre più da solo, con sempre nuove difficoltà ma nella tua battaglia per la buona letteratura, per la buona arte, insomma per la buona cultura, ti restano questi Grandi Amici invincibili, che non tradiscono mai e sono il vero capitale di un piccolo editore che tenta di andare avanti ancora per mezzo secolo. Grazie a loro in trent’anni di lavoro anche un piccolo editore “inutile” (nell’accezione prezzoliniana) ha potuto costruire una piccola diga contro la massificazione della cultura, contro il conformismo della cultura di partito, ed è un tentativo, sempre perdente ma che non demorde, di fare libri (libro in latino = libero) per altri trent’anni. “Sappiamo” diceva Baudelaire “che saremo capiti da un piccolo numero, ma questo ci basta”.

Chiedo venia per un altro mezzo secolo.