Un’acquata improvvisa sul corso, tutti
correvano e noi siamo entrati in un bar
e da lì si vedevano i vasi dei fiori rotolare
sulla strada in discesa. La greca nostra bella
faceva una faccia per dire “che acqua”.
Il temporale che arriva di giorno vuol
dire che comincia a guastarsi l’estate.
Spiovuto, siamo andati a casa di Ettore,
salendo la salita del Duomo, che ci ha dato
dei vestiti suoi per cambiarci. – Che maglia
m’hai dato? – diceva Pietro – Pare dell’Ascoli –.
In effetti era bianca e nera, tutti ridevamo.
– Va’ fori cuscì – dicevamo – che te riempono
de bote –. E tutti quanti sul balcone lavato
e luccico, lontano lampeggiava ancora ma
le nubi sulla testa s’aprivano e il sole subito
caldo già asciugava. – Oh, – urlava Pietro,
le mani alla ringhiera: – siamo quassù.
***
La latteria di via Calvairate siamo in tanti dopo il pranzo
seduti fuori ai gradini. Molti stanno a gruppi fra loro
io parlo con Dario giovane professore in grigio e paltò,
ci avevano messo a mangiare allo stesso tavolino. “Ecco
questa è Milano. Certi posti pieni di gente e i viali, i grandi
viali delle macchine. Poi vie tranquille di piccole case
basse coi giardini davanti con la salvia nei vasi” mi dice,
una giornata di sole d’inizio inverno. E si fa raccontare
ancora una volta di quel che faccio io coi libri, che li vado
a ritirare nelle cantine, nei mercati da poco, e li vendo poi
agli antiquari del centro. “Che mestiere che ti sei inventato,
che mestiere.” E ride e mi chiede come mai, di tanti studi
fatti, ho scelto poi di vivere così. Gli rispondo alzando
il mento, nel senso di capire lui il perché. E dietro al foglio
quadrettato del conto, segno i libri che mi ha chiesto,
se li trovo, Bruno Barilli, Il viaggiatore volante e Loria, Arturo
Loria, Il cieco e la bellona. Poi, e si chiamano fra loro, un gruppo
di operai se ne va, e via via gli altri e anche noi. Lascio Dario
al suo liceo di grandi finestre “A domani, alla stessa ora”
dice, mentre veloce sale le scale. E io, borsa a tracolla,
riprendo il mio giro. Certe vie, passando, guardarle così
mi sembrano quelle che ha detto Dario.
***
Festival
Nel sud della Francia, passata la regione del Var
e ancora oltre Salon, abbiam trovato una camera
nel piccolo albergo rosa di un piccolo paese magro
fra Avignone e Arles. La chiave possiamo tenerla
noi in tasca, mentre stiamo seduti sotto ai platani
a studiare i giocatori di boules. Prendono la mira
e cioccano la boccia avversaria con margini di errore
straordinariamente stretti e di nuovo un altro mette
la boccia vicino al pallino. Chiara gambe lunghe
distese al sole della sera mi chiede cosa ne penso
delle compagnie di teatro che abbiamo incontrato
la mattina, che hanno invaso le strade di Avignone
e domandano di andare al loro spettacolo, per pochi
franchi, si tiene nel cortile subito a destra, a quinze-
heures. Cosa penso, penso che ho visto bene negli
occhi di uno di loro, quello magro con la camicia
celeste, come in realtà mi stava dicendo che lui
dell’arte vorrebbe farne un mestiere. Un mestiere
che gli duri negli anni, una ricerca, un viaggio,
una bella compagnia. E che delle cose della vita
si può parlare bene, occorre soltanto alzare la voce
un po’ su certi morti valori, farne di nuovi. Questo
penso e Chiara ride del modo mio di immaginare
inventare le cose. Poi torna seria e indica un vecchio,
berretto in testa intento a mirare, piegato, poggiato
sui suoi talloni, il braccio in avanti, quasi solo così
nella spianata bianca e sassosa del campo di gioco.
«Guarda quanto ci credono certi uomini» mi dice.
«Speriamo che il cielo porti loro un po’ di fortuna.»
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Il verso lungo molto narrativo, la presenza fissa di nomi di persona, credo si possano addebitare all’esigenza della poesia contemporanea di raccontare la necessità di compagnia, la tremenda solitudine che si vive nonostante la folla umana ci circondi. Il suo linguaggio tradisce sentimenti come nostalgia e delusione, ma anche speranza. Non mi stupirei se scoprissi che anche Ronchi, come me, adora Pavese.